Santiago Cañón Valencia violoncello
Andrea Lucchesini pianoforte
CD doppio in digipack con copertina rigida
€16,00
Disponibile su ordinazione
Disponibile su ordinazione
Santiago Cañón Valencia violoncello
Andrea Lucchesini pianoforte
CD doppio in digipack con copertina rigida
La selezione di brani compresa in questo CD riserva, giustamente, uno spazio privilegiato alla musica di Ludwig van Beethoven. Scrivo “giustamente” perché la peculiare unione di violoncello e pianoforte viene letteralmente inventata, utilizzata per la prima volta proprio da Beethoven, con le due grandi Sonate op. 5 del 1796. Quasi certamente l’innovazione si deve all’incontro, avvenuto durante un soggiorno a Berlino, tra Beethoven e un grande virtuoso del violoncello, Jean-Pierre Duport; sta di fatto che nessun compositore precedente, nemmeno un violoncellista d’eccezione come Luigi Boccherini, aveva mai tentato di accostare tanto strettamente questo strumento ad arco e il pianoforte, di fondere la scrittura per tastiera con il timbro caldo, baritonale/tenorile del violoncello. Nel corso dei vent’anni successivi Beethoven scriverà altre sei composizioni per lo stesso organico, tre Sonate (op. 69 e op. 102 n.1 e 2) e tre serie di Variazioni su temi “favoriti”, come si diceva all’epoca (due tratti dal Flauto magico di Mozart, uno dal Judas Maccabaeus di Händel), dando così inizio al grande repertorio Ottocentesco per violoncello e pianoforte.
Come dimostrano le Sette Variazioni su Bei Männern, welche Liebe fühlen (1801; il tema è tratto dal Duetto tra Pamina e Papageno nel primo atto del Flauto magico), l’aspetto che a Beethoven interessava maggiormente sviluppare era il dialogo tra i due strumenti, lo scambio continuo dei ruoli e dei materiali musicali. Non a caso, quindi, Beethoven costruisce questa serie di Variazioni sulla melodia di un Duetto, non di un’Aria: esattamente come nell’opera di Mozart, il tema viene eseguito prima dalla mano destra del pianoforte (è la parte del soprano, Pamina), e poi dal violoncello (il basso, Papageno); infine i due strumenti suonano insieme, così come nel punto corrispondente del Duetto i due personaggi cantano riuniti. La stessa organizzazione “dialogica”, lo stesso tono di conversazione si ritrova in tutte le Variazioni, che esplorano diversi gesti strumentali, diverse trasformazioni del tema, ora espressive ora brillanti, passando attraverso i caratteri più disparati (da sottolineare in particolare il contrasto tra la “dolorosa” Variazione IV in modo minore e la scintillante Variazione V, e subito dopo quello tra il tempo Adagio della VI e l’Allegro ma non troppo seguito da un’ampia Coda – un gesto tradizionale nel ciclo di Variazioni tardo-Settecentesco – della VII).
La grande Sonata in La Maggiore op. 69, composta nel 1808, mostra le stesse caratteristiche ma su un piano infinitamente più ampio e complesso, visto che il “dialogo” e l’intreccio strumentale si fondono qui con la forma-sonata e con l’articolazione in più movimenti. Per renderci conto della complessità della scrittura beethoveniana basta ascoltare l’inizio del primo movimento: il tema è annunciato dal violoncello, ma viene proseguito dal pianoforte che lo sospende su una breve cadenza, un arabesco solistico; e immediatamente dopo è il pianoforte a proporci l’inizio, il violoncello la conclusione. Solo alla fine del movimento i due strumenti, insieme, suoneranno l’inizio del tema, e sarà il violoncello a portarlo a una nuova conclusione, più dolce e aerea. Lo stesso tipo di dialettica si ritrova nel percorso formale del brano, che alterna continuamente sezioni rilassate e distese (il primo e il secondo tema) e sezioni più mosse e agitate (le transizioni, le code); e nello sviluppo il tema iniziale verrà esplorato in diverse forme, ma sempre in modo minore, quindi reso più drammatico e contrastato. Il Finale – ugualmente scritto in forma-sonata, con una magnifica Introduzione lenta – ci mostra, in un certo senso, la soluzione opposta rispetto al primo movimento: il tema iniziale viene infatti dapprima esposto dal violoncello, e poi interamente ripetuto dal pianoforte; ma al termine del brano (e della Sonata) lo stesso tema si trasforma, magicamente, in un dialogo tra i due strumenti, nel quale il violoncello ci fa sentire la prima frase e il pianoforte la frase conclusiva (e subito dopo il rapporto tra i due strumenti si inverte, inizia il pianoforte e finisce il violoncello).
Beethoven quindi mette direttamente in relazione tra loro l’inizio e la fine della Sonata, ci propone un processo di trasformazione, una dialettica espressiva che travalica i confini tra i diversi movimenti e attraversa anche il bellissimo Scherzo centrale. Questo trascinante brano, infatti, è in minore ma contiene un Trio in Maggiore che si ripresenta due volte, articolando così la forma A-B-A-B-A spesso utilizzata in questo periodo della carriera beethoveniana (per esempio nel terzo movimento della Quarta Sinfonia e del Quartetto op. 59 n. 2). Tra gli innumerevoli aspetti interessanti dello Scherzo vale senz’altro la pena di menzionare almeno l’uso davvero straordinario delle sincopi – le due mani del pianista si “inseguono” letteralmente, fin dalla prima battuta, per gran parte del brano; e il violoncello partecipa ben presto allo stesso gioco ritmico – e dei contrasti dinamici: basta dire che già le due prime note del tema, nel pianoforte, devono essere suonate rispettivamente piano e fortissimo!
Sedici anni più tardi, nel 1824, Schubert scriverà la Sonata in la minore D. 821, che oggi è una delle sue composizioni più note ed eseguite. Questa Sonata è un cavallo di battaglia di molti violoncellisti, ma in realtà essa fu scritta per uno strumento oggi del tutto scomparso: l’arpeggione. Le testimonianze ci descrivono questo singolare strumento, inventato a Vienna nel 1823, come “una sorta di chitarra ad arco e a sei corde”, un ibrido che aveva più o meno la forma e le dimensioni di un violoncello. L’uso dell’arco spiega i grandi fraseggi legati ed espressivi presenti nella Sonata, che sarebbero del tutto impossibili da ottenere sulla chitarra. Le sei corde spiegano invece l’estensione di registro, davvero ampia, che Schubert affida all’esecutore nel corso del brano: in alcuni istanti la tessitura è talmente acuta da mettere in seria difficoltà un violoncellista, anche molto esperto, e in effetti oggi non è infrequente ascoltare “L’arpeggione” eseguito da una viola, o da altri strumenti che suonano in un registro più acuto rispetto al violoncello.
Il carattere della Sonata è molto diverso rispetto alla beethoveniana op. 69, e in questa differenza si riflettono il temperamento e l’estetica dei due compositori: Schubert non è tanto interessato ai contrasti, al dialogo drammatico, alle trasformazioni dei materiali quanto alla cantabilità, all’articolazione ritmica, alle sfumature armoniche. Gli accompagnamenti quindi sono molto più fissi, ripetuti e “scanditi” rispetto all’estrema mobilità del tessuto ricercata da Beethoven; e i temi (quasi sempre affidati al violoncello/arpeggione, raramente al pianoforte, soprattutto nel secondo e terzo movimento) vengono spesso “reinterpretati” dal punto di vista tonale, cambiano volto e carattere a seconda delle diverse, sorprendenti armonizzazioni ricercate dal compositore (il movimento lento, in particolare, sfrutta l’idea di un’armonia “cangiante” in maniera raffinatissima: in molti istanti lo strumento ad arco sostiene una singola nota, lunghissima, mentre il pianoforte modifica gradualmente gli accordi sot- tostanti, facendo letteralmente cambiare a ogni passo il “colore” della linea melodica). Il primo movimento è articolato secondo le linee di una classica, equilibrata forma-sonata; il secondo è una sorta di libera espansione lirica, e si collega direttamente al Finale tramite una breve cadenza solistica del violoncello/arpeggione. Il terzo movimento, il più articolato dal punto di vista formale, è un Rondò organizzato secondo l’insolito schema A-B-A-C-B-A: il tema principale ha un carattere semplice e cantabile, mentre gli episodi intermedi sono ritmici e “danzanti”, con alcune evidenti influenze ungheresi e zigane tutt’altro che rare nella musica di Schubert.
Giovanni Bietti, tratto dal booklet del disco